«San Francesco non ha fatto il presepe: ha vissuto il presepe». Così Rosa Giorgi, storica dell’arte, direttrice del Museo dei Cappuccini di Milano, spiega cosa accadde quella notte di Natale di ottocento anni fa a Greccio. «Non fare il presepe ma viverlo»: è la via che da allora, e ancora oggi, si offre a chiunque desideri «fare memoria» della Natività del Signore. L’importante è «ripartire da Greccio, dal significato autentico di quella rappresentazione voluta da Francesco nel Natale del 1223 – e che ha segnato in profondità il cammino dell’arte, come la pietà popolare e la devozione che si manifestano nel nostro “fare il presepe” – ma senza dimenticare il lungo cammino che era già stato percorso prima di Greccio», sottolinea Giorgi, nei giorni scorsi relatrice al convegno “San Francesco e l’invenzione del presepe” all’Ambrosiana di Milano.
«Le prime immagini della Natività – riprende la storica dell’arte – risalgono al IV secolo, dopo l’editto di Costantino, quando i cristiani ottengono libertà di culto, e più che restituire il racconto evangelico sono raffigurazioni simboliche – ad esempio la Madonna col Bambino e il profeta che indica la stella. All’inizio, inoltre, l’Adorazione dei Magi è un tema più diffuso. Arriverà poi la Natività in diverse varianti, prima in ambito bizantino e orientale, poi in quello latino. Tra gli elementi che compongono la scena c’è la mangiatoia – il segno che gli angeli danno ai pastori per riconoscere il Bambino – che può essere rappresentata come tale o come sarcofago, come altare, come greppia contenente del grano a evocare il Pane eucaristico. Tutto questo, a Francesco, è familiare, quando “inventa” la rappresentazione di Greccio per “fare memoria” del Bimbo nato a Betlemme e “vedere con gli occhi del corpo” la povertà e i disagi in cui venne alla luce. Francesco chiese di preparare una grotta con l’asino e il bue, non altro, e una greppia con del fieno sulla quale si celebrò l’Eucaristia. Un “fare memoria” che esprime la sua sensibilità per il mistero dell’Incarnazione e il suo amore per l’Eucarestia, con cui il Dio invisibile si rende presente e visibile».
Francesco, insiste Giorgi, «non ha fatto il presepio, lo ha vissuto. In mezzo ai poveri e agli umili, in quel Natale di Greccio». Un fatto che l’arte ha recepito. «Non subito, ma nel corso del ’300 particolarmente in area senese, si forma una nuova iconografia, l’Adorazione dei pastori, che sono volto dei poveri, degli umili, dei reietti, i quali non solo ricevono l’annuncio della nascita del Salvatore, ma se ne fanno a loro volta annunciatori. Un’iconografia promossa in particolare dai Francescani e che è un effetto di lungo periodo della notte di Greccio. In quei pastori – magari raffigurati con le sembianze e gli abiti dei poveri del proprio tempo – tutti possono immedesimarsi: come non accade coi Magi, rappresentati in scene piene di sfarzo e ricchezza». Il “fare memoria” della Natività si esprime poi nelle sacre rappresentazioni ma anche «in presepi con statue come quello di Arnolfo di Cambio, in Santa Maria Maggiore. Nel ’700 si arriverà anche ai presepi domestici, all’inizio solo nelle case dei signori».
Nel cammino dell’arte, intanto, prendono vita «iconografie nuove, a rimarcare la sensibilità del santo di Assisi verso il mistero dell’Incarnazione: come La Visione di San Francesco di Ludovico Carracci del 1583-1585, custodita ad Amsterdam, col santo che tiene fra le bracciaGesù Bambino e lo coccola, con tenerezza infinita, dopo averlo ricevuto dalla Vergine, una scena mai rappresentata prima. O come un’opera che abbiamo in esposizione temporanea al Museo dei Cappuccini: San Francesco e santa Chiara in adorazione del Bambino Gesù, olio su tela di Gerard Seghers del 1625-1629, con i due santi che dentro la grotta di Betlemme adorano il Bambino deposto in una mangiatoia di paglia, e la presenza di un ostensorio, attributo iconografico di Chiara, alla testa del neonato. Un anacronismo, certo, che però intreccia ed esprime mirabilmente la loro sensibilità eucaristica e la loro sensibilità per il mistero dell’Incarnazione».
Il presepe di Greccio – con la sua peculiare dimensione eucaristica e il riferimento al mistero dell’Incarnazione – finisce via via ai margini del cammino dell’arte, per ricomparire ai nostri giorni. «Come accade in un grande affresco di Sieger Köder, realizzato per una chiesa in Germania – la cappella di San Francesco del villaggio dei bambini “Marienpflege” di Ellwangen – dove, sotto la luce della stella, l’ostia elevata dal sacerdote e il Bambino innalzato da Francesco si sovrappongono. Una scena simile la troviamo in un olio su tela di Giovanni Gasparro del 2023 dipinto per la Basilica di Santa Maria in Aracoeli, a Roma».
Noi autori di presepi domestici come possiamo metterci alla scuola diFrancesco? «Portando la nostra vita, la nostra realtà, noi stessi, nel nostro presepe. Possiamo rievocare il valore eucaristico dell’evento di Greccio mettendo un pane accanto al Bambino, o spighe di grano nella greppia. Possiamo mettere pastori anziani, per richiamare gli anziani soli e abbandonati d’oggi. E lo stesso possiamo fare con altre “categorie” di persone “fragili”. Si tratta di trovare simboli e figure che sanno parlare al nostro tempo e alla nostra vita». Al Museo dei Cappuccini – dove fino al 3 febbraio è ospitata la mostra San Francesco, il Natale e Greccio. Variazioni sul tema della Natività tra Italia e Fiandre – sono andati oltre. Nei giorni che portano al Natale, con il progetto “Greccio: dall’annuncioall’accoglienza”, si tengono visite guidate rivolte ad associazioni che operano nel sociale – e alle persone “fragili” da loro aiutate. Fra i visitatori vi sono dunque «persone povere che potrebbero entrare in una “adorazione dei pastori” d’oggi – racconta la direttrice –. La nostra idea è che la bellezza è per tutti. E che con l’arte possiamo portare un annuncio di gioia e speranza anche a chi le ha smarrite».
(Fonte www.avvenire.it)
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